Le immagini di Oscar Lolli suggeriscono la raffigurazione di astri e galassie, di pianeti circondati da satelliti e di ammassi di polveri cosmiche, così come ci hanno abituato e vederli le ricostruzioni fotografiche pubblicate dalla NASA, trasformando impulsi elettronici giunti dallo spazio lontano in immagini percepibili dall’occhio umano, al limite più avanzato della tecnologia digitale.
Nel suo primo secolo di vita la fotografia è stata intesa come sicura testimonianza della realtà, sua copia fedele seppur priva del colore. Nel tempo successivo, che stiamo vivendo, grazie alla perdita dell’entusiasmo per l’affascinante scoperta e al sorgere di una riflessione critica più avveduta, ci si è resi conto di come quella convinzione fosse infondata.
L’avvento della tecnologia digitale ha poi dato il colpo decisivo al realismo fotografico, poiché l’immagine può essere manipolata con estrema facilità e può essere creata anche in assenza di un soggetto posto di fronte all’obiettivo. Davanti alle immagini di Lolli, che non dispone di satelliti artificiali in viaggio nello spazio profondo, né delle sofisticate tecnologie della scienza moderna, sorge legittimamente il dubbio se ci troviamo davanti a fotografie riprese dal vero o a immagini artificiali realizzate attraverso Photoshop, senza alcun aggancio diretto con la realtà,
Se l’analisi critica si limitasse al solo tema tecnico, troveremmo ben poco da dire intorno a queste immagini, che, invece, offrono interessanti spunti di riflessione.
Intanto, ci dicono di un interesse dell’autore per l’astronomia, che ha indirizzato in una determinata direzione la sua ricerca; in seconda istanza, e come conseguenza, si impone un approfondimento della lettura in questa ottica.
Per tale carattere slegato dai consueti filoni tematici, che caratterizzano le ricerche fotografiche odierne, conviene farsi qualche domanda preliminare in più, muovendo proprio dal rapporto forma / contenuto. Siamo certi innanzitutto di essere davanti a immagini di soggetto astronomico? Se lo fossero, dovrebbero avere una funzione scientifica e, dunque, obbedire a parametri prestabiliti per garantire una certa correttezza d’informazione. Certi reticoli di segni, posti a contorno del nucleo centrale e simili alla trama di venature su una foglia, mettono in crisi questa ipotesi, perché non si conoscono pianeti o corpi celesti avviluppati entro una rete. L’ipotesi astronomica viene dunque a cadere e la suggestione iniziale va definita una “lectio facilior”, cioè una interpretazione semplificata suggerita dalle nostre conoscenze.
Torniamo allora alle origini e rivediamo il problema tecnico. Un’osservazione più attenta ci fa cogliere che le immagini non sono artificiali, bensì ottenute con la procedura fotografica tradizionale, collocando qualcosa davanti alla lente dell’obiettivo e scegliendo il campo di ripresa ravvicinato della macrofotografia. E questo “qualcosa” è il fondo di una bottiglia, sporco dei sedimenti lasciati dal liquido che vi era contenuto. Si aggiunga una opportuna illuminazione controluce ed ecco, per trasparenza, comparire “altri mondi” astronomici, creati con sapienza compositiva e di intrigante suggestività,
Riportate le cose entro il giusto alveo (ecco la reale importanza della tecnica, che condiziona il valore del messaggio), le immagini si aprono ad altre è più giuste osservazioni critiche.
Valida resta la considerazione, inizialmente formulata, dell’interesse astronomico alla base della ricerca, ma da intendere nel senso che esso ha predisposto l’autore a individuare nei fondi di bottiglia somiglianze con il mondo dell’astronomia, che ad altri sarebbero sfuggite. Muovendo da qui, l’autore ha sviluppato una ricerca creativa realizzata con strumenti puramente ottici e con effetti di grande fascino.
Una bella lezione per quei fotografi privi di immaginazione e poveri di creatività, che si affidano al programma elettronico per tentare di rinvigorire immagini senza nerbo. I miracoli non li può fare, però, neppure la versione più recente di Photoshop.
Massimo Mussini